LEGGE 219/2012. SEPARAZIONE E DIVORZIO. L’ASSURDA UDIENZA PRESIDENZIALE DI GIAN ETTORE GASSANI. AVVOCATO MATRIMONIALISTA IN MILANO.

Ore 9.30. Tribunale di Roma. Una folla di uomini e donne si riversa progressivamente in uno stanzone rettangolare, simile alla sala d’attesa di un pronto soccorso. Un momento destinato a rimanere indelebile nelle loro vite – sogni e incubi stanno per finire la loro corsa – e a cambiare il loro destino. Quaranta coppie di sposi stanno per separarsi: è il giorno della verità dopo un conto alla rovescia durato mesi nella rabbia e nel dolore. Aspettano quasi tutte in piedi il loro turno, in un miscuglio di sentimenti e ricordi. Anche sedersi è una conquista, in questo orrendo mattatoio di amori chiamato tribunale.

Qui non si litiga per un parafanghi danneggiato, un pezzo di terra conteso o un seno rifatto male. Ma si decide dell’amore: quello che c’è ancora, quello che non c’è più e quello che forse non c’è mai stato. E in pochi minuti tutto sarà sistemato secondo un collaudato e squallido meccanismo alla stregua di una   “catena di montaggio”.

Nel tribunale della capitale, che non è nemmeno il peggiore – tanto per far comprendere l’italico squallore del sistema giustizia –  la tensione si taglia a fette e l’aria è irrespirabile. L’ambiente non accoglie, ma respinge e centuplica il disagio di chi ha già toccato umanamente il fondo o lo toccherà di lì a poco.

Ogni giorno un vociare sguaiato scoperchia i segreti più intimi. Non serve nascondere le proprie emozioni in un contesto tanto indiscreto. Tutto è alla mercè degli altri. Ci si sente denudati, violentati nei propri segreti violati e nella propria intimità in una giornata dolorosa e condita da un senso di legittima vergogna.  Da una parte ci sono uomini e donne che si minacciano reciprocamente guerre senza fine, intenzionati a usare tutte le armi per demolire l’altro, per annullarlo in tutti i sensi, mentre compiacenti avvocati affilano le armi anche quando in fondo tanto odio, ormai,  non avrebbe più senso.

Dall’altra c’è il “mercato” per tentare per l’ultima volta di accordarsi su soldi, casa e figli prima di entrare nella stanza del giudice con uno straccio di accordo in mano e porre provvidenzialmente fine alla grande contesa. Per cinquanta euro in più o in meno, per un regalo di nozze da attribuire,  per un pernotto di un figlio presso l’altro genitore,  o per il gusto idiota della vendetta, si rischia di entrare nel tritacarne di una causa senza fine, che potrebbe arrivare fino alla Corte Suprema.

C’è chi accusa malesseri, chi fuma nervosamente, andando avanti e indietro nel cortile antistante per esorcizzare la tensione. C’è chi finge indifferenza mentre sta morendo dentro, chi spera nel ravvedimento del coniuge o in un rinvio della causa. E chi vorrebbe spararsi un colpo in testa ma non trova il coraggio. Perché non esiste sconfitta più bruciante che vedere sgretolarsi il più grande investimento di vita che è il matrimonio, specie per chi ci ha creduto davvero. E’ quella sensazione di lutto, di incertezza del futuro, quella paura di non riuscire a prendersi una rivincita o di trovare una via di uscita che spesso porta a decisioni fatali.

Qualche avvocato cerca invano di riportare ordine davanti a un capannello di curiosi.

«Stia calma signora, le ricordo che siamo in un tribunale, si contenga».

Entra in scena un cancelliere che con incedere lento spinge un carrellaccio di ferro su cui sono in bilico i fascicoli delle cause del giorno.

Sono arrivati anche i giudici. Avranno il compito di decidere, in mezza giornata, la sorte di almeno venti famiglie a testa, e forse di più. Senza perdere tempo, comincia la mattanza dei matrimoni, perché la giustizia italiana va di fretta solo nei momenti in cui dovrebbe procedere con prudenza e umanità, mentre uccide ogni certezza con i suoi ritardi e con le sue tante inadeguatezze.

Qualcuno dei separandi si è fatto scortare: gli stessi padri che un giorno avevano accompagnato le figlie all’altare, oggi le portano davanti a un giudice. E poi madri, sorelle, fratelli riuniti per assistere all’ultimo atto. Mi è capitato talvolta di scoprire la presenza dell’amante di lui o di lei, con il rischio della consumazione di una tragedia. Di imbecilli fino al midollo ne vedo tutti i giorni, uomini e donne, senza distinzioni.

L’orario di inizio di ogni causa è incerto, come tutto il resto. A Roma le cause vengono fissate in orari del tutto indicativi, a volte ho tre cause fissate alle 9.30, ma probabilmente l’ultima la finirò alle 15.00.  C’è una lotta a scavalcare il turno con gli altri colleghi, a fare i furbi, nella strafottenza più totale delle esigenze altrui e dei turni. Non sembra di stare in un Tribunale. Tutto perde sacralità.

C’è chi  a muso duro e senza rispetto rimprovera il proprio avvocato di non aver picchiato duro nel ricorso: «Avvocato ha letto cosa ha scritto quel bastardo, avremmo dovuto picchiare anche noi, io le avevo dato l’incarico  preciso di distruggerlo».

Qualcuno sta per farsela addosso, perché un bagno non lo trovi nemmeno a pagarlo.  Qualcuno l’ho visto farsela addosso dall’attesa e a causa dei bagni occupati. Una volta partecipai ad una udienza con una signora che difendevo: aveva i pantaloni inzuppati di urina. Tutti facemmo finta di niente, davanti al giudice, mentre quella povera donna piangeva per essersi ridotta in quello stato in un giorno infame. Fu una umiliazione anche per me, che ero il suo avvocato.

E così, anche in questa strana giornata, si intrecciano storie di tradimenti, di matrimoni celebrati per amore o per convenienza, storiacce di violenza di ogni tipo, odio, faide famigliari, figli da espropriare come un bottino di guerra, nemici da distruggere in nome della vendetta e di uno strano senso dell’onore e dell’orgoglio.

Fa impressione la presenza di gente di ogni età – dal ventenne all’ottantenne – e di ogni estrazione sociale: professionisti, operai, disoccupati, stranieri. Tutti ammucchiati e tutti uguali almeno per un giorno, come nella “Livella” di Totò.

Puoi essere un premio nobel o un pregiudicato, la vittima o il carnefice, vedrai che il trattamento che ti sarà riservato sarà lo stesso.

Qualcuno perde le staffe e gli avvocati intervengono per fare il “servizio d’ordine” come lavoro straordinario non pagato.

Se qualche disperato volesse, potrebbe consumare una strage. Nessuno viene perquisito perché non esiste alcun controllo, neanche un finto metal detector. Portarsi una pistola o un coltello in alcuni tribunali, specie in Viale Giulio Cesare 52/D, è un gioco da ragazzi. Eppure, lo sappiamo tutti che le uniche vittime di omicidio nei tribunali della penisola sono persone che stavano separandosi davanti al giudice.

In Italia, il giorno dopo che si consuma un omicidio in tribunale, per qualche mese si intensificano i controlli seri,  ma una volta esaurita l’onda emotiva, tutto tornerà come prima, perché siamo un Paese allo sbando, in cui nessuno si assume responsabilità e nessuno pagherà. Non si sa mai con chi cazzarola prenderserla quando sarà scappato il morto in questo Paese di scaricabarile. Da noi pagano solo le mezze calzette perché non è vero che la giustizia è uguale per tutti.  Parola di addetto ai lavori.

Come da prassi si inizia con le separazioni consensuali, molte delle quali di consensuale, in fondo, non hanno niente. Procedure che durano pochi istanti, cinque minuti, forse sei. E poi il sigillo del tribunale. Pochi giorni e tutto sarà omologato, tutto finito in barba alla indissolubilità del matrimonio.

I due coniugi entrano insieme nella stanza del giudice accompagnati dai loro difensori. Tutto è già pronto da mesi, l’accordo era stato già raggiunto. Il giudice si limita a leggere in fretta le condizioni della separazione come un notaio – figli, casa, soldi – come un notaio davanti a un contratto. Il tentativo di conciliazione, ultimo sforzo per salvare il matrimonio, dura cinque o sei secondi, ammesso che il  giudice si ricordi di farlo. Una farsa, una formalità, gli sprovveduti coniugi avrebbero potuto pensarci prima per evitare tutto questo. Due firme e via, avanti un’altra coppia.

Alcuni escono da quella stanza piangendo, altri tirano un sospiro di sollievo. In fondo anche nelle separazioni consensuali c’è sempre un coniuge che scappa e l’altro che sigla l’accordo perché non ha alternative e perché non vuole subire le conseguenze di una lite giudiziaria senza esclusione di colpi o perché non ha i soldi per permettersi un avvocato decente. In un’ora le consensuali saranno tutte chiuse come i rispettivi fascicoli, uno sull’altro, tristemente in bilico al pari delle storie che contengono.

Arriva il momento delle separazioni giudiziali, quelle in cui si stendono i panni sporchi, si concentrano gli sforzi per demolire la controparte e gli avvocati possono mostrare il meglio e soprattutto il peggio di sé. E’ in queste procedure che alcuni avvocati possono davvero giocare sporco, in barba a qualsivoglia regola deontologica o giuridica oppure dimostrare le loro grandi qualità umane e tecniche. Purtroppo di esperti in materia, di addetti ai lavori che hanno fatto gavetta e si sono adeguatamente formati ve ne sono pochi in giro, rispetto alla moltitudine di legali che per campare si è catapultata nel diritto di famiglia, dopo che i sinistri stradali hanno iniziato a rendere di meno.

Il primo a entrare nella spartana stanza del giudice  è il ricorrente, quello dei due che ha voluto, a torto o a ragione, farla finita, trascinando l’altro con sé in questo giorno tristissimo.

Costui conosce a memoria il suo racconto (il giorno prima è passato dal suo avvocato per il “ripasso” del testo da recitare al cospetto del giudice, come un copione di una commedia). Il cancelliere verbalizza, spesso in modo impreciso, e al ricorrente sono concessi cinque minuti, e forse meno, per raccontare magari decenni di vita coniugale. Poi tocca al resistente e il ricorrente viene fatto uscire. Altro interrogatorio, altro sfogo veloce e disperato in pochi minuti. Entrano, poi, tutti e due accompagnati dai rispettivi difensori. Inizia il confronto e sale la tensione. Il giudice, già stanco (sono ormai le ore 12.00), esperisce il tentativo di conciliazione obbligatorio. Dieci secondi, non di più. Poi il magistrato tenta di “consensualizzare”, cioè trasformare la guerra in un accordo “civile”. Tre o quattro minuti, dopo di che se non ci riesce emette i provvedimenti provvisori e urgenti riguardo casa, assegni e soprattutto figli o, se il caso è complesso, si riserva di farlo nei giorni successivi.

Dopo questa udienza il calvario sembrerebbe finito, invece la guerra è appena cominciata. Una vita insieme spazzata via, in questo giorno infausto, in circa ventisette minuti. È il tempo processuale che occorre in media in Italia per emettere provvedimenti provvisori che, come tutto il provvisorio italiano, diventeranno di fatto definitivi. Puoi trovare giudici che dedicano un’ora e mezza alla decisione, altri tre quarti d’ora, e altri quindici minuti, o forse meno, per questa fondamentale fase iniziale della separazione giudiziale. Dipende dalle singole realtà giudiziarie, ma secondo un elementare calcolo sui dati raccolti nei vari tribunali della penisola la media è appunto di ventisette minuti.

Applicare tale italico andazzo al diritto di famiglia è il segno evidente che lo Stato non ha capito niente. Cambiano i governi, ma tutto resta uguale, perché esiste una distanza siderale tra il legislatore di turno e la società reale e gli addetti ai lavori.

Queste procedure avrebbero bisogno di tempo, di prudenza, di coraggio. di impegno, di notti insonni, di preparazione e rispetto da parte di giudici e avvocati, di consulenti capaci, di gente con gli attributi.

Anche un provvedimento provvisorio in una materia come questa, se non è corretto, e soprattutto se non lo si può modificare alla svelta, diventa una tragedia.

Questi cittadini, dopo aver assaggiato il gusto amaro di un procedimento sgangherato, si sentono più soli e più delusi di prima. Avevano sperato che la loro causa fosse qualcosa di più solenne, di più serio, di più umano, come avrebbe certamente meritato la loro storia personale. Non una comune pratica da sbrigare nel più breve tempo possibile. Poche battute, tutto scritto, nessuna  arringa memorabile. Nulla di quanto si vede nei film o è radicato nell’immaginario collettivo.

Intanto le altre coppie in attesa cercano di capire cosa sia successo in quei beffardi ventisette minuti in cui si è deciso del destino dei loro compagni di sventura che li hanno preceduti. Alle 12.27 circa, quindi, entra un altro ricorrente. Il giudice mandato al fronte è ancora più stanco e solo di prima.  Stessa prassi. E così si arriverà fino al pomeriggio inoltrato, dopo cinque ore di attesa, o forse più, per gli ultimi della lista.

Le coppie, oggi, hanno almeno ottenuto il foglio rosa di separati, in attesa della patente che conseguiranno con la sentenza dopo tre o quattro anni di “istruttoria”, tra rinvii allucinanti, tempi morti e burocrazia di un processo pesante e farraginoso, sulla carta preciso come un orologio svizzero. Se poi, dopo il giudizio di primo grado, dovessero subentrare appendici in appello e in cassazione, gli anni di attesa saranno biblici. E non ci sarà divorzio breve che tenga. Perché il divorzio breve ha in senso solo se la coppia raggiunge un accordo, altrimenti sarà una via crucis come prima. Roba da terzo mondo, ed è amaro riflettere al riguardo sull’Italia “culla del diritto”. Che cosa succederà a quelle persone dopo l’udienza presidenziale? Quali altri bocconi amari dovranno ingoiare se la loro vicenda dovesse andare avanti per via giudiziale? Da qualche anno i nomi dei coniugi non sono indicati nell’orrendo elenco davanti alla porta del giudice, ma solo il numero del registro della loro procedura. Tutto questo con l’ipocrita intento di salvare la riservatezza dei separandi/divorziandi. Tutto inutile. Ci sarà sempre un cancelliere o un avvocato che urlerà nel corridoio il nome della coppia che deve entrare e addio privacy!

E così inizierà la fase istruttoria, momento processuale in cui si raccolgono le prove di chi è il “cattivo” e chi la “vittima”, chi ha le corna e chi le ha fatte, ed è concesso alle parti e agli avvocati di vomitare tutto l’odio del mondo pur di “vincere”, costi quel che costi.

Tutto si svolgerà in una stanza di venti metri quadrati davanti al giudice istruttore che paradossalmente sarà quasi sicuramente lo stesso che si era pronunciato all’udienza presidenziale oppure potrà capitare che una causa di separazione o divorzio passi per le mani di tre o quattro giudici che si avvicenderanno per via di trasferimenti, maternità o altro, aumentando a dismisura lo sconforto dei cittadini in attesa di giustizia. Ognuno di questi giudici dovrà studiare ex novo le carte processuali, pur non avendo mai visto in faccia, nemmeno per un minuto, i coniugi separandi o divorziandi. E quando appare all’improvviso un giudice che il giorno prima si occupava di tutt’altro, occorre farsi il segno della croce. Del resto se si contesta ad un avvocato che si occupa di condomini di cimentarsi in un’aspra procedura familiare a maggior ragione dovremmo contestare chi manda allo sbaraglio un magistrato del tutto impreparato in diritto di famiglia, che è una materia complicatissima ed altamente specialistica. Dobbiamo avere il coraggio di urlare questo concetto.

Abbiamo bisogno di magistrati superspecializzati che si occupino della stessa materia per tutta la loro carriera. Altrimenti non cambierà mai niente.

E cosi si entra nella fase istruttoria, quella che deve raccogliere le prove. Altro girone infernale, addirittura peggiore di quello di prima.

Scena: sessanta avvocati, ammucchiati l’uno sull’altro senza nemmeno lo spazio per redigere il verbale d’udienza. Anche Perry Mason o Carnelutti sarebbero scambiati per due cialtroni in un contesto simile che uccide il fascino della professione degli avvocati e le speranze dei cittadini, quel popolo in nome del quale vengono emesse le sentenze. Un vociare assordante copre anche i rumori corporali. E poi gocce di sudore sulle carte. Ogni tanto si ode un urlo, è un giudice che invoca pietà per il suo sistema nervoso, scosso dal vociare di osteria di tutti i presenti, mentre sta interrogando qualcuno o sta redigendo un provvedimento.

Qualcuno sembra pentirsi per non aver ingaggiato un killer, al posto del legale, per eliminare il coniuge: «Meglio trent’anni di galera che questo inferno… in un tribunale italiano». A un certo punto, qualche avvocato urla incazzato perché è sparito il suo fascicolo: «Dov’è il fascicolo Rossi contro Bianchi?»

Lo troverà dopo due ore. Poi si sente un trambusto in direzione del giudice, ormai abbandonato al suo destino, travolto da fascicoli impilati e gente che gli circonda la scrivania. C’è un testimone che sta dicendo che il marito è «un vero cornuto». Tutti fanno un passetto in avanti per ascoltare meglio quel racconto impietoso. E poi commenti e sorrisini di scherno all’indirizzo del cervo a primavera, che vincerà la causa, ma intanto ha perso la faccia. La situazione diventa ancora più drammatica quando i coniugi si accapigliano per i figli. Le urla diventano animalesche: «Non sei degno di fare il padre!» «Taci madre da quattro soldi, hai messo i figli contro di me!» Una baraonda in cui anche un giudice capace rischia di diventare una macchietta senza prestigio.

Intanto altri separandi, immersi in quel marasma, cominciano a innervosirsi, a vergognarsi di se stessi e del luogo dove si trovano. Sono passati dagli studi legali ovattati, a volte lussuosi, in cui si parlava del processo immaginandone la sacralità, per poi trovarsi in un luogo di folli. Chi vuole più soldi, chi vuole trascorrere le vacanze con i figli. Chi accusa la suocera che da sempre rompe i co****, anche dopo la separazione. Arriva il turno della signora Rossi. Battibecco violento con il marito che l’accusa di fare la “bastarda” perché chiede più soldi per il mantenimento. Lei replica: «Vergognati, tu vorresti portare in vacanza i figli con quella schifosa della tua nuova amichetta…» Ci sarà un rinvio di mesi della causa. E poi ancora altri. In alcuni casi interverrà la guardia di finanza per scovare qualche scheletro nell’armadio, in altri un consulente strizzacervelli, spesso incapace come avvocati e magistrati se non di più, per verificare infermità di mente o capacità genitoriali, oppure scenderanno in campo i servizi sociali per valutare alla loro maniera il caso di togliere i figli a entrambi i genitori e affidarli a terzi. Anni di stupido odio senza fine in cui potrà succedere di tutto. Per poi arrivare alla sentenza. E continuare a odiarsi anche dopo, forse per sempre, grazie al processo. Dopo tanti anni di onorata carriera, posso dire che un avvocato normale e anche un magistrato degno di questo nome, che crede nel proprio ruolo, non potrà mai accettare tutto questo. Perché esiste una dignità da difendere per tutti.

Non è possibile spaccarsi la schiena sui sacri testi ogni santo giorno, investire anni di vita e di speranze, partecipare a corsi di formazione e aggiornamento a proprie spese, stare in studio anche nei week end in nome di un perfezionismo doveroso,  per poi andare a fare l’avvocato in un mercato. E’ come se un grande calciatore, ricco di talento e fantasia, fosse costretto a giocare in uno squallido campo in terra battuta e con un arbitro di terza fascia.  Costui non avrebbe più alcun incentivo ad allenarsi.

Qualsiasi avvocato normale auspica un nuovo processo, senza provvedimenti presi al buio o con prestampati da magistrati esausti o impreparati, con un maggiore sostegno e controllo per le famiglie spaccate per prevenire forme di violenza, con la mediazione familiare nei casi critici, con giudici preparati, in un contesto che non perda mai di vista la dignità e il decoro dei cittadini e del sistema giustizia nel suo complesso. E la colpa non è certo tutta dei magistrati, anzi, sarebbe troppo facile addossare solo a loro ogni responsabilità, ma di un sistema politico che ha sperperato i nostri soldi per le cose inutili e ha trascurato il settore giustizia, che è quello più importante perché da esso dipende il funzionamento dell’intera società.

Lo Stato, che comunque ha perso tanti martiri nell’avvocatura, magistratura e forze dell’ordine, semplicemente per aver fatto il loro dovere nella più cupa solitudine, deve chiedere scusa ai tanti cittadini trattati in modo indegno dal sistema giustizia. Lo ha fatto anche la Chiesa per i propri errori. Può e deve farlo anche lo Stato.

Allora è proprio vero che quando il diritto entra nella famiglia, la famiglia perde ogni diritto.

 

Tratto dal saggio “I perplessi Sposi” (Aliberti Editore) di Gian Ettore Gassani, Avvocato Matrimonialista in Milano e Roma. Avvocato Cassazionista, Presidente Nazionale dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani (AMI), esperto in diritto di famiglia, diritto delle persone, diritto minorile, diritto penale della famiglia, diritto di famiglia internazionale, diritto delle successioni ereditarie, diritto civile, diritto penale.

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